In un editoriale della scorsa settimana abbiamo spiegato per quale ragione noi di Farmacisti Al Lavoro siamo assolutamenfe favorevoli all’introduzione del numero chiuso nazionale nelle facoltà di farmacia, proposta peraltro ripresa dal DDL Mandelli-D’Ambrosio Lettieri appena presentato in parlamento assieme ad altre proposte utili per il rinnovo della professione. In questo articolo abbiamo però voluto dare spazio anche ad alcune voci critiche: che cosa ne pensano in proposito il presidente del sindacato dei farmacisti non titolari (che abbiamo recentemente intervistato in merito al rinnovo del contratto dei collaboratori) e il vicepresidente della FNPI, la federazione delle parafarmacie italiane?
Francesco Imperadrice, presidente di Sinasfa, qual è la tua opinione riguardo all’introduzione del numero chiuso nelle facoltà di farmacia?
La risposta alla tua domanda potrà sembrare scontata, ma bisogna prima fare alcune considerazioni.
La risposta alla tua domanda, vista la situazione occupazionale dei colleghi non titolari, potrebbe sembrare scontata, però ritengo che sarebbe troppo semplicistico rispondere che bisognerebbe introdurre il numero chiuso alle facoltà di farmacia senza fare prima delle considerazioni su come certe decisioni abbiamo anche delle ricadute umane e sociali oltre che su una logica occupazionale. Il conseguimento della laurea è uno dei pochi mezzi che hanno i giovani per realizzare le loro aspirazioni e raggiungere uno degli obiettivi più importanti della loro vita, dal quale ovviamente sperano di ricavarne soddisfazioni professionali e possibilmente stabilità economica. Limitare un giovane nelle proprie aspirazioni è sempre una cosa molto sgradevole, anche perché sarebbe semplicistico e superficiale affermare che hanno la possibilità di poter entrare dove vogliono mediante dei test, in quanto troppe variabili concorrono al superamento di questi.
Secondo Sinasfa, le università non dovrebbero “chiudersi” ma al contrario dovrebbero cercare di attrarre il maggior numero di giovani possibile, perché la crescita la ricchezza e le possibilità di sviluppo di una Nazione sono anche legate alla ricerca e al “livello culturale” della sua popolazione. Non a caso in molti altri Paesi, più stabili ed evoluti del nostro, (non è un nostro giudizio, ma la triste realtà che ci vede agli ultimi posti in quasi tutte le classifiche) esistono politiche completamente diverse di accesso e di sostegno dei giovani all’Università, anche perché in un mondo globalizzato i giovani per fortuna hanno la possibilità di potersi spostare non solo in tutta Europa, ma anche in tanti altri Paesi del mondo.
Fatte queste considerazioni, dobbiamo essere molto realistici e prendere atto della situazione particolare che esiste in Italia.
Il numero chiuso sembra l’unica possibilità per limitare i danni, ma è comunque una sconfitta per la categoria.
Innanzitutto, per quanto riguarda i farmacisti, negli ultimi decenni è mancata completamente una programmazione sia da parte della politica che delle istituzioni di categoria per evitare che si arrivasse ad un punto di saturazione occupazionale. Nessuno in questi anni, pur essendo facilmente prevedibile che si sarebbe arrivati ad una situazione del genere, visto le leggi “chiuse” che governano il nostro sistema ad incominciare dall”ereditabilità della farmacia, è riuscito a creare delle nuove e concrete possibilità occupazionali alternative alla farmacia. Solo gli esercizi di vicinato hanno prodotto parzialmente dei risultati creando un minimo di occupazione, ma le norme restrittive che regolano questo settore hanno anche provocato molti fallimenti tra i colleghi, per cui al momento non la si può considerare una valida alternativa occupazionale. Finché non ci saranno delle svolte concrete da parte della politica per ampliare le competenze e quindi gli sbocchi occupazionali del farmacista, la sola possibilità per limitare i danni ai futuri colleghi è quella di prevedere il numero chiuso per le facoltà di farmacia, non senza sottolineare che questa scelta è comunque una sconfitta per tutta la categoria.
Comunque, dando per scontato che prima o poi si arriverà al numero chiuso, ci sarà da chiedersi: quanto verrà a costare alla collettività la formazione di ogni singolo farmacista? Quanto costano alla collettività ogni anno le Facoltà di Farmacia? Quali prospettive occupazionali hanno comunque questi laureati se non hanno già una farmacia in famiglia? Se alla fine la risposta fosse che spendiamo cifre molto elevate per formare dei professionisti che faranno i disoccupati, riteniamo che dovrebbero diventare oggetto di attenzione da parte delle istituzioni sia il numero delle facoltà di farmacia sul territorio nazionale che la norma riguardo all’ereditarietà della farmacia, che secondo noi impedisce il turnover occupazionale. A questo di dovrebbe aggiungere un ampliamento delle quote regionali a favore delle farmacie del “capitale”, che a differenza delle farmacie di “famiglia” produrranno perennemente un turnover occupazionale.
Matteo Branca, vicepresidente della FNPI, e tu che cosa ne pensi?
Davvero, per un problema di squilibrio tra domanda e offerta, la soluzione migliore è la mera riduzione artificiosa della domanda?
Intanto posso dirti che come FNPI abbiamo sempre portato avanti battaglie all’insegna della libertà e della dignità professionale. Quindi parole come “numero chiuso ” stridono con lo spirito che ci anima, a prescindere. Poi certo, spirito e ideali vanno, ahimè, piegati spesso alle esigenze della cruda realtà. Tuttavia mi domando: davvero, di fronte ad un problema di richiesta di lavoro maggiore dell’offerta, la soluzione migliore è la mera riduzione artificiosa, a monte, della domanda? Se non c’è lavoro smettete di chiederlo, fate altro. Questa è in sintesi la ricetta proposta.
In una Facoltà, quella di Farmacia o CTF, difficile, lunga, non certo tra le più prolifiche nello sfornare laureati. Fino a qualche anno fa era vero il contrario, nel nostro settore si trovava lavoro entro un anno da laurea e abilitazione in percentuali molto elevate.
Il problema risiede nel sistema chiuso, ereditario e feudale. Bisogna lasciare che sia il merito a fare la differenza.
Io credo che il problema risieda nel concetto stesso, sempre lui, di sistema chiuso, ereditario, feudale. Il numero massimo di farmacie per numero di abitanti, per esempio, che più volte l’antitrust ha raccomandato di trasformare in numero minimo, è un limite lampante all’aumento di offerta di lavoro. Il numero di farmacie che offre lavoro viene artificiosamente limitato, è il concetto stesso alla base della pianta organica, che in Germania hanno abolito nel 1958. Da undici anni a questa parte la nascita delle Parafarmacie ha assorbito parte di questa richiesta di lavoro, e senza di loro questa emergenza probabilmente sarebbe stata percepita molto prima. E le Parafarmacie potrebbero assorbire ben altra quota lavoro se non fossero tenute artificiosamente zoppe, qualunque cosa si intenda per zoppìa in questo caso, e soprattutto qualunque cosa si intenda politicamente come soluzione a tale zoppìa. Se manca il lavoro, non dovremmo costringere le persone a fare altro, ma cercare invece di creare più lavoro, insegnamento, ricerca, consulenze, figure nuove come il farmacista proscrittore, o il farmacista di corsia e di reparto, valorizzare il farmacista ovunque lavori. Non ridurre la domanda, aumentare piuttosto l’offerta di lavoro, e lasciare che sia il merito a fare la differenza.
E nel nostro settore si può. Anche in un settore dal mercato anelastico come quello del farmaco, si può.
Non sono contrario alla proposta in sè ma la considero marginale, sinergica rispetto ad altre soluzioni.
Poi sicuramente alcune argomentazioni a favore del numero chiuso meriterebbero spazio, quantomeno di discussione. Troppi farmacisti privi della giusta motivazione, o perché transfughi dal test di medicina, o perché, me lo si lasci dire, ereditieri obbligati: vero, ma da una parte aspiranti medici potrebbero comunque essere buoni farmacisti, e dall’altra ereditieri obbligati si farebbero fermare da un test? Lo rifarebbero l’anno successivo, tutto qui. Bassa retribuzione dei collaboratori, perché la domanda di lavoro è tanta e l’offerta poca: vero anche questo, ma fino ad un certo punto. Ridurre il numero dei farmacisti aspiranti collaboratori non aumenterà di una virgola gli stipendi, senza una volontà sindacale e professionale di titolari etici, che vada in questa direzione. Contratto Nazionale rinnovato, giusto stipendio proporzionale alle responsabilità, niente voucher e simili. Ma per queste cose servono titolari che sappiano valorizzare i propri dipendenti, e ne conosco tanti per fortuna, ma forse non abbastanza. Sulla parificazione con altre professioni sanitarie potrei essere d’accordo, se non fosse che la rivendicazione del nostro ruolo sanitario passa da ben altre vie, ad oggi poco battute, diverse dalla mera riduzione dei farmacisti. Diciamo in sintesi che non sono contrario alla proposta in sé, ma la considero marginale, eventualmente sinergica rispetto ad altre soluzioni, e mi aspetterei dalle istituzioni sia politiche, sia ordinistiche, sia sindacali di categoria l’elaborazione di proposte un po’ più articolate, e indirizzate alla valorizzazione del farmacista ovunque lavori. Più che alla sua riduzione numerica. Sta alla politica trovare i giusti equilibri tra istanze professionali, esigenze lavorative, urgenze imprenditoriali, egoismi di varia natura, e buon senso.
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